“Non possiamo più emettere CO2 per la mobilità privata agli stessi livelli di quanto fatto negli ultimi venti o trent’anni”. La tecnologia per riuscire nell’obiettivo “esiste” ed è senza dubbio “l’elettrico”. Ora la questione è “organizzare l’industria” e la filiera italiana può riuscire nella riconversione. È categorico Francesco Zirpoli, economista all’Università Ca’ Foscari di Venezia, tra i più autorevoli analisti del mercato automotive in Italia e direttore del CAMI, Center for Automotive and Mobility Innovation. “Il modello classico della mobilità privata basata sull’acquisto del veicolo è ormai poco efficiente dal punto di vista ambientale – spiega – E adesso occorre mantenere la barra del timone dritta verso la decarbonizzazione”.
Prof. Zirpoli, come e quando nasce il CAMI?
“Nel 2014 a Ca’ Foscari, con l’idea di portare avanti la ricerca sul mondo dell’auto e della mobilità in generale. L’intuizione alla base era che ci sarebbe stata una convergenza tra il mondo dell’auto e dei servizi di mobilità. Di fatto è un network di esperti e professori che operano in diverse università e centri di ricerca nel mondo. Ha sede a Ca’ Foscari perché qui c’è un gruppo che storicamente si è occupato di questo settore. Ha una dimensione federativa e funge anche da avamposto europeo di una rete internazionale, che ha sedi anche in Francia, Giappone e Stati Uniti”.
A distanza di circa dieci anni, quell’intuizione si è realizzata?
“Certamente lo sviluppo è stato meno rapido del previsto, soprattutto se si pensa alle aspettative sulla mobility as a service (MAAS). Ad esempio, il car sharing è cresciuto, ma non è riuscito a diventare la modalità di trasporto dominante nei centri urbani. Ciò detto, la componente dei servizi nella mobilità è destinata a crescere. Il modello classico della mobilità privata basata sull’acquisto del veicolo è ormai poco efficiente dal punto di vista ambientale ed economico. Sappiamo che mediamente l’auto ha un utilizzo molto limitato che non supera il 6-7% del tempo mentre ha un impatto ambientale molto rilevante”.
Dobbiamo preparaci alla perdita di centralità delle quattro ruote?
“In alcune aree urbane, pensiamo alle grandi città europee, le nuove generazioni già oggi tendono a dare meno importanza all’acquisto e all’uso dell’automobile. Ma questo non significa che ci sarà un rapido ridimensionamento del parco circolante: la modifica dei comportamenti di consumo ha una fortissima componente culturale. In assenza di una spinta legislativa è difficile arrivare a utilizzare di meno l’auto ed è improbabile pensare che il cambiamento arrivi spontaneamente. Oggi pensiamo sia strano fumare in un cinema o in un ristorante, eppure era normalissimo farlo negli anni ’70 e ’80. Se non lo avessimo vietato, staremmo ancora in quella situazione. L’auspicio è che un domani ci sembrerà strano che il suolo pubblico sia occupato in prevalenza dalle automobili, cosa a cui invece oggi siamo abituati”.
In Italia sembrerebbe quasi un tabù, considerando il tasso di motorizzazione record del nostro Paese…
“Ci saranno comunque fasce di popolazione che dovranno continuare a usare il mezzo privato, ma ci sarà chi potrà farne a meno spinto dalla consapevolezza dell’importanza di usare alternative più sostenibili”.
Gli obiettivi europei legati alla scadenza dei motori termici nel 2035 sono realistici?
“Non è questione se siano realistici, parliamo di obiettivi che definisco necessari. È un fatto fisico: non possiamo più emettere CO2 per la mobilità privata agli stessi livelli di quanto fatto negli ultimi venti o trent’anni. Come ci si arriva? Facendo in modo che l’industria nel suo complesso si sviluppi attorno alla tecnologia, che esiste. È una questione di organizzazione industriale. Per rendere realistica la roadmap servono investimenti in infrastrutture e tecnologie pulite e soprattutto serve tenere la barra del timone dritta, per limitare il riscaldamento globale come previsto dagli accordi di Parigi. Continui “stop & go” sul tema, frutto di un dibattito pubblico molto particolare in Italia, di sicuro non aiutano”.
L’industria italiana è pronta? Non ci saranno conseguenze nefaste?
“L’osservatorio Tea del CAMI, in collaborazione con il CNR-Ircres di Torino e Motus-E, da tre anni produce una survey per capire in che modo la filiera italiana è esposta alla transizione. Emerge che la maggioranza delle imprese italiane, il 61%, produce componentistica che è indifferente alla tecnologia del drive-train (per esempio sedili, fanali, plance, ecc…). Gli altri investono ancora nell’endotermico, perché è la tecnologia che oggi ha mercato, ma non significa che le competenze non possano essere riconvertite. La nostra ricerca mostra che in Italia non esiste un problema di esposizione al rischio tecnologico, ma di rapida e rilevante riduzione delle commesse, soprattutto da parte di Stellantis la cui produzione è ai minimi storici in Italia”.
Si parla spesso dell’obiettivo, al momento molto lontano, di produrre almeno un milione di veicoli in Italia. Si potrà raggiungere secondo lei? Anche magari con l’arrivo di un altro costruttore?
“Sicuramente si potrebbe fare pressione su Stellantis affinché produca in Italia più modelli che realizzano alti volumi. Ma ricordiamo che uno dei problemi più avvertiti dalle imprese automotive nel nostro Paese è l’alto costo dell’energia. Tra l’altro l’arrivo di un nuovo produttore straniero è legato a varie condizioni e sarebbe importante che venga qui a sviluppare i prodotti e non semplicemente a produrli. L’arrivo di uno stabilimento non cambierebbe lo scenario attuale in modo significativo, bisognerebbe agganciarlo a un vero e proprio piano di sviluppo…”.
Si parla tanto delle possibili sanzioni previste per i produttori che non rispettano i nuovi limiti sulle emissioni. Potrebbero davvero mettere in ginocchio l’industria automotive europea?
“La mia aspettativa è che non succederà granché. Mentre i carmaker stimano multe nella misura di circa 15 miliardi, stime di autorità indipendenti mostrano che non sarà così. Un paio di produttori potrebbero avere delle difficoltà e finire con il pagare delle multe, ma queste saranno di almeno un ordine di grandezza inferiore a quanto si sta raccontando…”.
Capitolo dazi, altro argomento controverso…
“Sono stati fortemente voluti da alcuni paesi europei, come la Francia. Ma si tratta di una misura necessariamente temporanea, che serve a colmare un gap di innovazione, a presidio dei segmenti del basso di gamma, sui quali la Cina è molto forte. Sicuramente i dazi rappresentano un danno per il consumatore, che vede diminuire l’offerta di prodotti a buon mercato. Ma sono abbastanza scettico che riusciranno a salvare l’industria automotive”.
Intanto i brand cinesi iniziano a riscuotere sempre più consensi in Europa e in Italia…
“È vero, ma bisogna sottolineare che la cosiddetta invasione cinese non è legata all’elettrico, ma proprio al basso di gamma. A testimonianza di questo c’è il fatto che i modelli cinesi più venduti in Italia hanno il motore endotermico, non elettrico”.
Parliamo tanto di elettrico, ma c’è chi evoca anche la soluzione biocarburanti. Lei come la vede?
“Quella dei biocarburanti è una bufala se riferita alla mobilità privata: la quantità di biocarburante che possiamo produrre è incompatibile con le attuali esigenze e in ogni caso molto più impattante sull’ambiente dell’elettrico. È surreale che se ne continui a parlare come soluzione al problema. Se parliamo di mobilità privata, in questo momento non esiste una tecnologia più efficiente dell’elettrico”.
Con l’auto privata che sembra destinata a perdere la sua centralità, su cosa sarà basata la mobilità delle grandi città nei prossimi 10 o 15 anni?
“Penso ci sia bisogno di uno sforzo combinato di più soluzioni di mobilità, a partire dal potenziamento del trasporto pubblico e di modalità condivise. Quanto alle auto che vedremo circolare, l’auspicio è che si aumenti l’uso di mezzi piccoli, “frugali” e poco energivori. Pensiamo alle famose “Keicar” giapponesi, piccole e leggere, che negli ultimi anni hanno dimostrato di poter abbattere le emissioni in Giappone di CO2 anche del 23-24% e che potrebbero avere uno sviluppo anche come full-electric”.
Ma come potranno questi veicoli raggiungere un vasto bacino d’utenza anche in Italia?
“Al momento questi veicoli non sono incentivati, ma dovrebbero essere sostenuti a livello normativo e fiscale. Il tema è questo: la transizione produrrà vinti e vincitori. La priorità è senza dubbio ridurre le emissioni. Ci troviamo in un percorso, ma sappiamo che può esistere un’economia significativa di sviluppo e prosperità collegata a questa direzione”.